Nel Pd c’è voglia di partecipare, di discutere, di sostenere ma anche di criticare, di incidere di più nelle scelte. Anche, se necessario, di dichiararsi minoranza che si confronta con un indirizzo maggioritario. Per il Partito democratico questo è un problema? Io penso di no. Penso sia, anzi, la nostra stessa natura. Lo confesso, quando vedo l’immancabile pagina di giornale che ogni tanto fa l’albero delle correnti del PD, non mi preoccupo. Semmai penso che sia una rappresentazione parziale. Le sensibilità e le differenze tra di noi sono di più: aree politiche che aggregano culture di provenienza certo, ma anche territori, donne, giovani, specificità tematiche, centri studi, riviste, personalità, associazioni sindacali o di categoria, e potrei continuare ancora.
Queste mille anime chiedono a una leadership che, unica nel panorama politico italiano, ha un’investitura diretta in primarie aperte, di raccoglierle e fare sintesi. Sintesi, non sommatoria. Non la somma di mille spinte che non si risolve mai in una linea sola, chiara, forte. Queste mille anime si propongono anche come rinnovamento continuo dei gruppi dirigenti. E quale sarebbe l’alternativa: il sorteggio tra i simpatizzanti? Voglio dire una parola anche agli osservatori che ci guardano, sinceramente democratici e progressisti, ai quali basta una riunione come quella di Montepulciano per parlare di una leadership prigioniera. Sono gli stessi che fanno finta di non vedere come viene accolta sul palco di Montepulciano la Segretaria, e che soprattutto non fanno una piega di fronte alle leadership di altri partiti ormai monocratiche e autoritarie.
Con le ultime regionali si sono chiusi i test elettorali intermedi più importanti. Inizia ora il tempo di dimostrare al Paese che c’è un solido progetto alternativo di governo e un gruppo dirigente sufficientemente credibile per realizzarlo. Ci vuole troppa malafede per non riconoscere che possiamo iniziare quest’ultima lunga tappa perché siamo arrivati vivi fin qui. Bisogna fare uno sforzo di rimozione per non ricordare le prime, frustranti settimane di questa legislatura, in cui sembravamo in Parlamento una comitiva di pugili suonati, con i più ottimisti tra noi che all’inizio del 2023 ragionavano del nuovo nome e del nuovo simbolo da dare a un nuovo partito. Siamo vivi, siamo in piedi, e non è stata fortuna. Perché pur navigando “senza il vento della storia”, come avrebbe detto Franco Cassano, e con avversari coriacei, siamo comunque riusciti a rimetterci in cammino. Sta allora a noi far tesoro del lavoro svolto e alzare il livello della sfida. Io non ho ricette organiche, ma qualche appunto.
Primo appunto.
Non credo, non ho mai creduto, nella demonizzazione dell’avversario. Abbiamo fatto e facciamo bene a contrastare premierato, autonomia differenziata e smembramento delle magistrature. Ma se contestiamo innanzitutto il metodo, dicendo che le regole si riscrivono insieme, dobbiamo poter immaginare di offrire noi, nella prossima legislatura, una stagione di riforme costituzionali che maturino in Parlamento e che non siano bandierine di una maggioranza.
Secondo appunto.
Un nuovo governo deve rimettere al centro le politiche economiche e sociali e affrontare insieme disuguaglianze, inverno demografico, migrazioni. Se vogliamo essere all’altezza della nostra storia dobbiamo guardare non solo alla minoranza che sta peggio – che pure va protetta con più forza, penso a chi non ha nemmeno un salario minimo o rinuncia a curarsi – ma anche alla maggioranza degli italiani che rischia di scivolare verso il basso. Questo significa riforma fiscale più progressiva, lotta seria all’evasione, tassazione delle big tech, politiche industriali che non siano solo bonus a pioggia ma visione di lungo periodo. Il Paese, in questo inverno demografico e con il record di emigrazione giovanile, non tiene e non terrà. Non possiamo fare finta che la denatalità sia un fenomeno neutro, né che le migrazioni siano solo un “problema” da gestire alle frontiere. Contro la demagogia della destra usiamo parole più coraggiose: l’immigrazione regolare serve al nostro paese, alle nostre imprese e alle nostre aree interne per la tenuta delle comunità. Su questi temi Gori a Prato ha fatto proposte interessanti su cui discutere.
E sulla sicurezza, diciamocelo: la prima grande politica preventiva è l’eguaglianza. Dove crescono le disuguaglianze, dove si svuotano le periferie di servizi, lo Stato arriva sempre dopo: dopo i predicatori d’odio, dopo la propaganda, dopo la rabbia sociale. Un Paese sempre più vecchio e più diseguale è criminogeno: perché vede aumentare le potenziali vittime e i potenziali carnefici di illegalità e violenza. E la diseguaglianza resta la più tenace tra i “tarli del legno”, per usare la metafora efficace di Federico Fornaro, all’origine dell’astensione e della crisi della democrazia. La sicurezza è un tema anzitutto della sinistra perché si occupa della difesa dei più deboli ed è un impegno di politica e di politiche per la coesione sociale.
Terzo appunto.
C’è un capitolo su cui non possiamo più permetterci di restare evasivi: la condizione delle donne e, specularmente, la crisi maschile. Tra le maggioranze ridotte in minoranza politica praticamente da sempre ci sono innanzitutto le donne. La svolta vera ci sarà quando gli uomini che si definiscono progressisti decideranno di prendere di petto, con decisione, la propria crisi di fronte alla liberazione femminile, facendone terreno di impegno concreto non solo nelle istituzioni ma nei luoghi di lavoro, nella vita quotidiana, nel linguaggio, nelle relazioni. Non è un capitolo “a parte” dell’agenda: riguarda il modo in cui pensiamo il potere, la rappresentanza, la vita familiare, il tempo di cura.
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Questo orizzonte e queste sfide richiedono una coalizione che tenga al centro lavoro, sanità, istruzione e diritti. Senza una coalizione non c’è gruppo dirigente sufficientemente credibile da proporsi come gambe solide di idee forti. La mancanza di una coalizione è stata la principale causa della sconfitta del 2022, e la ricostruzione di un nucleo di coalizione è stata il principale merito di questi quasi tre anni di lavoro. Non è stato affatto semplice, per molti motivi. Tra questi il fatto che il nostro partito è nato con una tentazione di autosufficienza: esaltare l’io e pensare che bastasse “fare bene noi”. Questa segreteria, piaccia o non piaccia, ha dovuto metterci ogni giorno un di più di umiltà, pazienza, rinuncia alla presunzione e all’arroganza, passi indietro anche dolorosi, sia a livello nazionale che locale. Tutte cose che mettono a dura prova sia l’identità programmatica sia l’unità interna, che pure hanno tenuto. È l’opposto del leaderismo che tutto subordina alla maggior gloria del capo.
Certo: una coalizione non regge se non c’è un partito solido che ne sia pilastro. Su questo fioccano richiami e ammonimenti, spesso anche giusti. Io posso offrirvi il mio punto di vista, quello di chi ha visto come abbiamo impiegato le risorse economiche e umane rispetto ai precedenti quindici anni di vita del Pd. In quegli anni abbiamo fatto un po’ di tutto: grandi campagne di comunicazione incentrate sul leader, una quantità enorme di sondaggi, progetti mediatici, piattaforme digitali, e una famosa campagna referendaria per la quale abbiamo finito di pagare i debiti solo lo scorso anno, cioè otto anni dopo. Il tutto ha coinciso con risultati non brillantissimi alle elezioni e con fasi di governo in cui abbiamo fatto cose importanti a servizio del Paese, ma abbiamo fatto anche errori. E forse tra questi c’è stato il trascurare un po’ la cura del partito come impegno di tutti. Per questo permettetemi di rivolgermi a un amico, nome in codice “Filippo” che so apprezzerà, facendogli dono di un prodotto tipico della mia terra; una massima di Ennio Flaiano: «Coraggio, il meglio è passato». Anche noi non siamo stati e non siamo esenti da errori; la differenza la fa solo la capacità di riconoscerli e correggerli in tempo. In questo quadro, confesso che non mi torna molto il dipinto (che non ho visto a Montepulciano) di un gruppo dirigente di improvvisatori. Perché invece di stupirvi, ancora una volta, con effetti speciali, abbiamo provato semplicemente a ricostruire il più possibile. A partire dai territori.
La Segretaria ha fatto lunghe campagne politiche ed elettorali in migliaia di luoghi, guardando negli occhi le persone, conoscendo nomi e storie. In un anno abbiamo trasferito ai territori più risorse di quante ne fossero arrivate nei dieci anni precedenti messi insieme, ricostruendo pian piano un partito dei militanti e non solo degli eletti. Grazie anche a questo, abbiamo riaperto e riacquistato sedi – come quella di Ponte Milvio a Roma, che è stata di Enrico Berlinguer – dove Sabrina, la diciottenne segretaria dei Giovani democratici, ci ha raccontato che si incontra, studia e fa politica con un gruppo di coetanei. E io che pensavo che per parlare con i giovani dovessimo acquistare una casa virtuale nel metaverso di Zuckerberg. Abbiamo raddoppiato le Feste dell’Unità, riportato il partito nelle piazze, dato forza alla Conferenza delle donne democratiche, rimesso in piedi i Giovani democratici, rilanciato la formazione politica, potenziato la digitalizzazione del partito. Abbiamo tirato fuori i nostri dipendenti dalla cassa integrazione dopo otto anni, rinnovato il contratto dopo 13, applicando le 35 ore a parità di salario e il congedo paritario pienamente retribuito, per provare a somigliare il più possibile a quello che diciamo.
In altre parole, abbiamo applicato il più classico dei manuali sui partiti politici: sedi, militanza, formazione, organizzazione, radicamento. Moltiplicando così le sedi di dibattito, di proposta ma anche di critica. E sappiamo tutti che questi risultati non sono il frutto del lavoro di pochi o solo dell’indirizzo deciso da Elly Schlein e dalla segreteria: è stato un lavoro corale dei territori, dei gruppi parlamentari, degli amministratori locali, delle volontarie e dei volontari.
Quando il partito si ricorda di essere comunità, i risultati arrivano. Il partito non può essere vissuto come una rottura di scatole, come un asfissiante “interno” contrapposto all’esterno, dove il capo stabilisce un rapporto diretto e solitario con la folla, scavalcando tutto il resto. Emilio Gentile ha descritto bene questa deriva come una forma di “democrazia recitativa”. Noi dobbiamo esserne l’antidoto, non una variante. Io penso che in questo partito ci sia già il sufficiente grado di solidarietà, consapevolezza e responsabilità per evitare l’una e l’altra deriva e per offrire all’Italia una squadra credibile e coesa. Una coalizione vera, un partito plurale, una leadership salda. L’Italia non ci chiede di essere tutti d’accordo su tutto; ci chiede di essere abbastanza seri, e abbastanza uniti, da poterle dire credibilmente: ci siamo e siamo degni della vostra fiducia.