Salvini difende a spada tratta la scelta di bloccare l’iter della legge sul “consenso libero e attuale” ed è sintomatico che l’unica forza della maggioranza a esprimersi, nel silenzio raggelato degli alleati, sia quella che ha deciso il colpo di mano. “Il ddl è condivisibile come principio ma lascia troppo spazio alla libera interpretazione e a vendette personali. Così i tribunali finirebbero intasati”. Nel merito il leader della Lega e prima di lui Giulia Bongiorno, che ha chiesto la sospensione della legge per approfondimenti, potrebbero avere dalla loro alcune ragioni anche se dar credito al sincero garantismo del Carroccio è impresa impossibile.
L’opposizione denuncia il tentativo di insabbiare la legge, le parole del vicepremier vengono bollate dalla relatrice Di Biase, Pd, come “raccapriccianti e sessiste”. I ministri Nordio e Roccella assicurano che invece la legge, dopo aver chiarito gli elementi discutibili che effettivamente campeggiano, verrà regolarmente approvata. Ma se dal merito del ddl si passa al significato politico della mossa leghista il quadro cambia. La scelta di bloccare l’unica legge concordata direttamente dalla premier e dalla leader dell’opposizione che ci sia stata sinora e senza neppure concordare una via diplomatica con la premier stessa è uno sgarbo molto vicino alla sfida. Forse la Lega avrebbe comunque chiesto di rivedere una legge che di essere rivista – a parere di alcuni giuristi – ha effettivamente bisogno. Ma le modalità brusche e quasi brutali con le quali il Carroccio ha deciso di muoversi denotano l’intento preciso di incrinare l’immagine di leader-padrona della quale ha goduto sin qui Giorgia Meloni. Salvini del resto ha cambiato tono e postura un po’ su tutti i fronti.
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Sulla presidenza della Lombardia non chiude le porte ma neppure dà segno di aver già deciso di rispettare l’accordo per cui in cambio della candidatura di un leghista nel Veneto sarebbe poi arrivata quella di un tricolore nella prima regione d’Italia. “Se nella mia Lombardia FdI presenterà un candidato credibile sarò felice di prenderlo in considerazione”, concede magnanimo il capo leghista. Sulla legge elettorale fa il superiore, “Mi interessa men che meno”, ma la sua testa d’uovo in materia, il ministro Calderoli, sta già mettendo a punto le richieste da inserire nella nuova legge da strappare in cambio del semaforo verde e su un punto chiave, l’indicazione del premier sulla scheda, sia Salvini che lo stesso Tajani hanno già deciso di sbarrare la strada a Giorgia.
All’interno della Lega il trionfo di Zaia nel Veneto crea al leader una bella quantità di problemi. Il doge ha già lanciato anche a nome degli altri governatori del nord l’offensiva con l’obiettivo di ridisegnare la Lega come “partito federalista”, cioè come alleanza stabile tra leghe diverse e parzialmente autonome. Un disegno nel quale il partito del nord avrebbe un peso preponderante a tutto scapito del leader nazionale che infatti è ben deciso a bloccare la manovra di Zaia e dei nordici. Ma se nel partito la rosa è piena di spine, nella coalizione invece Zaia ha regalato a Salvini una forza e un peso contrattuale che dalle elezioni politiche del 2022 in poi non aveva neppure sfiorato. Non più certa di una vittoria alle prossime politiche che sino a due giorni fa lei, come un po’ tutti, dava per quasi certa, surclassata da Zaia nella sfida veneta, Giorgia si trova per la prima volta da quando è premier in una posizione di debolezza della quale approfittano gli amici quanto e più degli avversari.
Qualche problema serio però c’è anche dall’altra parte della barricata, tra i “vincitori morali” di una partita finita in pareggio tre a tre solo sulla carta. Per il Pd la riforma elettorale è una sciagura che cercherà a ogni costo di evitare, pur sapendo che se la premier otterrà il via libera degli alleati non ci sarà nulla da fare. Il principale alleato del Pd, il M5s, però è molto meno infiammato. A Conte il proporzionale è sempre sembrato il sistema più utile per il suo partito, quello che garantirebbe di fare il pieno di voti. L’avvocato punge anche su un altro e più immediato fronte. Insiste per arrivare alla stretta finale dell’alleanza solo dopo l’estate, sulla base di un programma votato dalla base in rete. Il guaio è che in quel programma, a fianco di capisaldi per il Pd condivisibili come l’intervento sulla sanità, ci sarà certissimamente il no al riarmo. Su quel punto, ovviamente, Elly preferirebbe che non si accendesse alcun riflettore. Allearsi con un partito che mette il no al riarmo in testa alla propria agenda significherebbe entrare in rotta di collisione con una parte del partito e soprattutto, eventualità ben più temuta, con il capo dello Stato, con Sergio Mattarella.