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“In ‘Mothers’ spiego cosa pensano i figli del reato universale”, intervista ad Alice Tomassini

Photo: Linkedin Alice Tomassini

Photo: Linkedin Alice Tomassini

In Concorso al 43° Torino Film Festival, nella sezione documentari, arriva Mothers di Alice Tomassini. Prodotto da Palomar, il film affronta il tema complesso della maternità surrogata, attraverso l’intreccio di tre storie che partono dalla Cambogia e si fermano sulla nostra Italia recente. Tomassini è volata in Cambogia per intervistare alcune tra le 32 donne che, in seguito ad una legge improvvisa che ha criminalizzato la maternità surrogata, sono state arrestate e costrette a crescere i figli altrui che hanno partorito. Prosegue poi il suo viaggio nell’Italia della norma che ha reso la gestazione per altri reato universale, minacciando i genitori intenzionali che vi hanno fatto ricorso. Incontriamo Alice Tomassini a Torino in attesa che il film esca nelle sale nel 2026 con Wanted.

Che film è Mothers?
È il mio documentario più doloroso. Questa storia che parte in Cambogia, arriva in Italia per un corto circuito. Ho scoperto la storia di queste donne grazie alla fotografa Nadia Shira Cohen, che sono state messe in prigione, costrette a partorire lì e poste davanti all’ultimatum: tenere questi figli come fossero i loro, oppure passare 20 anni in carcere. Loro hanno scelto di crescere questi figli. Mi è sembrata una storia di una violenza inaudita e sono andata lì in Cambogia, le ho cercate ed è stato sorprendente conoscerle, soprattutto per la loro resilienza. Non hanno ben capito perché sono state punite. Mentre ero lì, in Italia è passata la legge che condanna la gestazione per altri, ecco dunque il corto circuito. Ho sentito l’esigenza di cambiare il film in corsa e parlare anche del mio paese.

Un film per rimettere le persone al centro?
Penso che questa tematica spesso venga ridotta a slogan o liquidata velocemente. La parte più difficile del documentario è stata proprio trovare le persone disposte a raccontare la loro storia perché avevano paura. Ho impiegato quasi un anno per trovare le tre mamme intenzionali che mi hanno raccontato che cosa c’è dietro la loro scelta. Mothers non vuole incentivare la gestazione per altri, promuoverla, però vuole cercare di rimettere le persone al centro e di ascoltarle. Poi ognuno può rimanere dell’opinione che vuole, perché questo argomento è super divisivo e non credo si possa dare una risposta facile.

Mothers racconta come il controllo sul corpo femminile diventi il terreno su cui si gioca la libertà?
Il film alla fine parla anche di questo, del corpo, il corpo politico, parla dell’autodeterminazione, delle scelte, quindi sì, parla di maternità, ma parla anche di tutto ciò che gira intorno al nostro corpo e alla maternità. Tutto ciò che non appartiene alla maternità “tradizionale” diventa qualcosa di difficile, di scomodo.

Chiude il film con Lia, figlia di due padri e nata grazie alla gestazione per altri.
Si, perché volevo conoscere questi figli, questo frutto del reato universale, capire come la vivono. E ho conosciuto questa forza della natura di 18 anni che m’ha sorpreso tantissimo anche per la sua maturità. Una delle prime cose che mi ha detto è “la domanda classica che tutti mi fanno, è: ma non ti è mancata una madre?”. Racconta che questa domanda ripetuta negli anni è diventata quasi una roba morbosa, tutti si aspettavano da lei qualche confessione struggente. Lia dice invece una cosa bellissima: “Ho una famiglia che mi ha desiderato tantissimo e permesso di crescere in uno spazio sicuro” e l’ho trovata molto forte, molto giusta. Dice: “non mi definisce il modo in cui sono venuta al mondo, mi definisce il modo in cui sono cresciuta”. Spero che Mothers, nel suo piccolo, possa contribuire anche a cambiare il modo in cui delle volte guardiamo alle cose e soprattutto, alle persone.