X

Puglia e Campania, le Regionali benedicono l’asse Pd-M5S di Schlein: arretrano i colonnelli agli ordini di Prodi

Photo credits: Sara Minelli/Imagoeconomica

Photo credits: Sara Minelli/Imagoeconomica

Ha fatto flop la (contro)rivoluzione dei Garofani. Arretrano i colonnelli agli ordini di Prodi e Guerini che avevano esibito il fucile contro l’inadeguata Schlein. Dalle urne esce malconcia l’operazione speciale dei centristi. Avrebbero voluto affidare al placido Ruffini la produzione dell’agognata scossa, magari a seguito di un rigetto popolare della candidatura di Fico in Campania. E invece è andata male. Coloro che ancora non rifiutano il gioco politico bollandolo come in larga parte svuotato di senso e quindi, nonostante le disillusioni, decidono di andare ai seggi deserti, lo fanno per ribadire la loro guardinga fiducia in una embrionale proposta di alternativa alle destre che è in gestazione nei territori.

La conferma della Campania – si ode salire dai quartieri una clamorosa pernacchia che copre di ridicolo i molleggiati Meloni e Tajani – e della Puglia archivia il sabotaggio degli indomiti oligarchi bianchi, per i quali la vendetta contro la segretaria si serve a cena. Dal rinsaldamento dell’asse Pd-Cinque stelle costoro temono l’incrinatura della obbedienza ferrea al comando delle élite europee. Nel loro credo gli amici peninsulari di Ursula hanno scolpito due soli articoli di fede: l’austerità di bilancio come promessa eterna delle leggi finanziarie e i fondi a cascata per il riarmo entro uno stato di guerra permanente coltivato quale obiettivo millenario del continente Dopo il brindisi, segue l’analisi. Il pieno dei votanti attratti dalle pratiche di scambio gestite mediante le risorse distribuite dai poteri regionali nulla chiarisce sulle molecolari tendenze degli apatici, degli astenuti cronici, dei settori di società non conquistabili con i puri simboli dell’amministrazione. Per penetrare nelle coscienze di chi è renitente alla odierna mobilitazione elettorale – nulla a che vedere con la nozione fantasiosa di un centro moderato da accarezzare – ci vuole una nuova offerta politica.

Più che il lungo duello per decidere a chi affidare il comando (con Palazzo Chigi e Quirinale in palio non risulterà proibitiva una equa distribuzione del bottino), cruciale diventa la preparazione di una tangibile svolta ideale-programmatica. Sarebbe una dimostrazione di acquisita saggezza quella di posticipare le scaramucce per la leadership, concentrandosi sulla correzione qualitativa dell’agenda politica, anche alla luce dell’insuccesso di Alleanza Verdi-Sinistra che contro la guerra non ha affinato una visibile opposizione. Una coalizione incardinata sul patto Pd-M5S non può prendere realisticamente quota se il Nazareno non fa i conti definitivi con la nostalgia dell’agenda Draghi e con il bellicismo come lettura del ruolo europeo nell’ordine multipolare. Ciò che viene chiamato riformismo è nient’altro che la costruzione di una formidabile barriera politico-culturale che ostacola qualsiasi antidoto alla ripetizione della folle corsa solitaria del 2022. Dentro il Pd le differenze di lettura dei grandi processi in atto sono macroscopiche.

L’ideale sarebbe perseguire la saggia soluzione adombrata da Engels. In una lettera ad August Bebel del 1882, egli invitava le anime inconciliabili della socialdemocrazia ad una separazione consensuale, fermo restando l’impegno reciproco delle parti a ritrovarsi nell’appuntamento elettorale per “concordare un’azione comune, perfino formare una coalizione”. Nella sinistra tedesca un benefico distacco tra le correnti, però, non veniva mai perseguito perché gli oppositori preferivano mugugnare, fissare ostacoli, finendo così per non decretare mai la fuoriuscita dai protettivi simboli dell’organizzazione. La descrizione di Engels, circa la condotta degli aspiranti capi senza alcun seguito di massa sul finire dell’Ottocento, ricorda molto da vicino quanto accade ogni giorno tra le fazioni del Nazareno che graffiano di continuo la segretaria.

“Se decidessero di loro spontanea volontà di formare un’ala destra separata, tutto si risolverebbe subito. Ma difficilmente lo faranno; sanno bene che formerebbero un esercito di soli ufficiali senza soldati, come la Colonna Robert Blum, che nella campagna del 1849 si unì a noi intendendo combattere solo sotto il comando del valoroso Willich. Quando chiedemmo dunque da quanti combattenti fosse formata quella colonna di eroi, venimmo a sapere – puoi immaginarti l’ilarità – che era formata da un colonnello, undici ufficiali, un trombettiere e due soldati”. Neppure le truppe alle dipendenze di Picierno, Guerini e Gualmini oltrepassano il recinto angusto delle pure cariche elettive. Consci delle carenze di sostegno, i riformisti con i loro affondi reiterati scelgono di logorare, stancare, sognare la scossa ostile alla leader senza mai lasciare l’accampamento.

Non appartiene alla loro mentalità la follia della partenza dalla vecchia casa inabitabile per ritrovarsi nella futura guerra contro le destre. Tocca a Schlein trovare soluzioni a questa paralizzante complicazione interna che blocca ogni manutenzione identitaria. Il voto la autorizza a forzare. Per essere testardamente unitari non basta predicare la necessità delle negoziazioni, occorre che solido diventi il terreno dei valori condivisi. La lotta contro l’economia di guerra è una sfida irrinunciabile