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Quel riformismo di Prodi, quinta colonna del liberismo: lo ha dimostrato al governo e in Europa

Photo credits: Alessia Mastropietro/Imagoeconomica

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Non esistono riforme indolori: ogni vera riforma mette fine a un privilegio. (C. Cassola)

Dopo essere intervenuto in vari talk-show televisivi, in una intervista a tutta pagina sul Corriere della Sera Romano Prodi esplicita le sue idee su ciò che sarebbe necessario fare in Italia. Criticate le parole d’ordine con cui Mamdani è diventato sindaco di New York, sostiene che, da noi, occorre “un riformismo coraggioso, ma concreto, che punti al cambiamento (…) senza un radicalismo che spaventa gli elettori”.
Si tratta della vecchia convinzione della “sinistra” governista (“per cominciare bisogna governare”, sottolinea Prodi), superata dall’arrembante avanzata del tecnocapitalismo neofeudale, che vanifica gli assetti democratici, concentra ricchezze come mai prima, punta al riarmo e fomenta le guerre.

Dinanzi alla società dell’1 per cento – dove un’accolita di multimiliardari è arrivata a possedere ricchezze e beni che superano quelli del 99 per cento degli esseri umani – il “riformismo” governista è semplicemente impotente e finisce per oliare i meccanismi dello strapotere dominante. A dimostrarlo è proprio l’esperienza politica vissuta da Prodi. Il primo governo da lui presieduto cadde nel 1998 per il ritiro dell’appoggio esterno da parte di Rifondazione comunista, che votò contro la finanziaria per il mancato varo, precedentemente concordato, della legge di riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali, provvedimento che stava trovando il riconoscimento in Francia per via legislativa, e in Germania per via contrattuale. Il regalo fatto da Prodi all’oltranzismo confindustriale non rappresenta il tipico caso di riformismo senza riforme?

Successivamente Prodi, presidente della Commissione europea, in un sol colpo allargò, nel 2004, l’Ue da 15 a 25 membri, con l’ingresso della Repubblica Ceca, di quella Slovacca, di Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Polonia, Slovenia, Malta, cui si aggiunsero in seguito Bulgaria e Romania. Si trattò, semplicemente, di un espansionismo di tipo mercantilistico, senza attenzione al riconoscimento dei valori ideali di coesione europeista. Una decisione burocratica frettolosa, che ha creato le basi dell’attuale marasma comunitario, per cui l’Ue è divenuta l’odierno ectoplasma politico. Esempio notevole di riformismo… autosterile. Il “riformismo” governista, proteso all’alternanza anziché alla ricerca dell’alternativa, finisce inevitabilmente per rafforzare gli assetti contro i quali dice – si illude – di lottare.

Un altro ragguardevole esempio viene da un contemporaneo politico di Prodi: Bill Clinton, presidente democratico degli Stati Uniti dal 1993 al 2001, propugnatore della “terza via”, volta a conciliare le posizioni liberali sull’economia con una politica sociale “progressista”.
Guardate che cosa è successo. Il divario di reddito fra il quinto degli individui più ricchi nel mondo e il quinto di quelli più poveri, che era di 3 a 1 nel 1820, saliva, nel 1913 a 11 a 1; meno di cinquant’anni dopo, nel 1960, era quasi triplicato: 30 a 1; in appena trent’anni, nel 1990, raddoppiava: 60 a 1; nel 2001, quindi in un solo decennio, schizzava a 80 a 1. Il balzo avveniva in piena globalizzazione, a riprova dei suoi effetti reali, altro che opportunità per tutti! Nel tempo lasciatogli libero da… Monica Lewinsky, Clinton, in sintonia con il premier inglese laburista Tony Blair, con il suo “riformismo” aumentava le disuguaglianze nel mondo. Non a caso lo slogan della sua campagna elettorale era “insieme potremo rendere di nuovo grande l’America”, diventato poi la bandiera di Trump con il noto MAGA – Make America Great Again – (a riprova della sostanziale intercambiabilità fra il partito democratico e quello repubblicano).

L’esperienza storica dice chiaramente che il “riformismo” senza radicalità finisce con lo spianare la strada alle forze conservatrici di destra: è così negli Usa, in Germania, in Italia, in vari Paesi europei e in diversi di quelli latinoamericani. “Radicalità” non significa estremismo, ma l’andare, appunto, alla “radice” delle cause che determinano i processi politici e sociali. Dinanzi al fatto che il mondo sta bruciando – per i mutamenti climatici, per l’aumento intensivo delle disuguaglianze, per il riarmo forsennato, le guerre, lo sgretolamento della democrazia – o il riformismo si pone in antagonismo alla presente dittatura del profitto, sulla base di una nuova visione della società, fondata sulla solidarietà fra le persone e i popoli, resa viva da una mobilitazione cosciente dei cittadini, oppure lascerà il tempo che trova e, anzi, contribuirà addirittura ad aggravarlo, come si è mostrato.

Danno qualche speranza i movimenti dei giovani, che si battono per risanare il clima e per i diritti dei popoli, a partire da quelli dei palestinesi. E’ auspicabile che sorgano nuovi leader politici, capaci di muoversi recuperando l’antica sapienza dei greci. Per Platone la politica deve essere “epiméleia koiné”, la “cura comune”, non basata sul comando e l’imposizione, ma sulla persuasione e l’elevamento della coscienza dei cittadini per affrontare insieme il destino comune. Di questo, oggi, c’è davvero bisogno.